Realtà, percezione e narrazione: come ci raccontiamo influenza la nostra psiche
Realtà e percezione della realtà non sono quasi mai sulla stessa lunghezza d’onda. Neanche quando riguardano i fatti della nostra vita.
Il modo in cui ciascuno di noi interpreta le cose che accadono, i gesti altrui e la propria storia sono frutto del proprio vissuto, della propria cultura e del proprio modo di vedere il mondo.
Da questa percezione soggettiva nasce il modo in cui raccontiamo le nostre vicende personali.
Ma la narrazione non è solo un modo per “dar fiato alla bocca”: ci impone di collocarci in un determinato spazio nel mondo e nelle nostre relazioni… e di assumere un ruolo.
La percezione e la narrazione di sé in psicologia
Come ho raccontato nell’articolo che introduce il mio nuovo libro, la narrazione è un aspetto fondante di un percorso psicologico.
Il modo in cui raccontiamo la nostra storia è frutto della nostra interpretazione della realtà, ma a sua volta ci spinge a convincerci ulteriormente che la nostra percezione sia corretta.
Quando si analizza un racconto (letterario, psicologico, antropologico…) si rintracciano sempre dei ruoli assunti dai personaggi. Ora, anche nel momento in cui narriamo la nostra vita, le nostre esperienze e le contestualizziamo, assegniamo dei ruoli, in primo luogo a noi stessi.
Ad esempio, c’è chi tende a percepire se stesso e raccontarsi nel ruolo dell’eroe, chi della vittima. Chi non si sente “protagonista” della sua vita ma assume il ruolo dell’aiutante. C’è perfino chi, ad esempio soffrendo di sensi di colpa disfunzionali, racconta se stesso come l’antagonista, il cattivo ecc. Naturalmente, al ruolo che assumiamo nella nostra stessa narrazione corrispondono i ruoli che attribuiamo agli altri.
Ogni racconto prevede che ci sia “l’altro”
Il racconto della propria vita non è mai il racconto di un personaggio solitario, ma è sempre frutto di una relazione con gli altri. Anche nella più totale solitudine, l’altro è presente in quanto “mancanza”.
La percezione che abbiamo di noi, degli altri e del mondo dipende da moltissimi fattori. Il primo, estremamente radicato dentro di noi, è il rapporto con i genitori e la famiglia di origine. Chi si è sentito amato ed ha avuto una relazione famigliare sana durante i primi anni di vita, tende ad essere un adulto con autostima e con un punto di vista equilibrato (ma pur sempre soggettivo) rispetto ai fatti. Viceversa, chi ha sofferto la mancanza di amore e di cure, o addirittura chi ha subito abusi o maltrattamenti in tenera età, porta con sé ferite profonde quando diventa adulto.
Cambiare la narrazione è cambiare la percezione
La realtà oggettiva è allora qualcosa di molto sfumato, difficile da cogliere davvero nella sua essenza, ammesso che esista.
Su cosa si può lavorare, allora? Sulla narrazione e sulla percezione.
Spesso il lavoro dello psicoterapeuta è quello di aiutare il paziente a cambiare il racconto che fa di sé e della sua vita. Riformulare pensieri e frasi ha un effetto potente sul modo in cui la realtà viene percepita.
Nei bambini, la capacità di linguaggio e di pensiero crescono di pari passo. Queste due competenze sono strettamente legate anche dal punto di vista psicologico. Il modo in cui ci raccontiamo cambia il modo in cui ci percepiamo e viceversa.
Chi affronta un percorso psicologico, tende a modificare la sua narrazione preferendo un punto di vista più equilibrato e centrato.
Che cosa significa? Una persona “equilibrata” è una persona che utilizza un discorso assertivo: è consapevole di sé, dei propri diritti e dei propri desideri, ma riesce a comprendere che anche gli altri hanno diritti e desideri. Rifugge quindi sia dall’aggressività sia dalla passività, due atteggiamenti che, invece, ci spingono a identificarci in ruoli marginali rispetto al racconto della nostra vita.