Fari nel buio
“C’è qualcosa di più forte della morte
ed è la presenza degli assenti
nella memoria dei vivi.”
(V. Perrin)
Tutti, prima o poi, sperimentiamo la perdita di qualcuno che abbiamo amato profondamente, consapevoli che un giorno questo passaggio toccherà anche a noi in prima persona. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, nessun essere vivente può sottrarsi a questa legge.
La morte fa parte del ciclo della vita, è un fenomeno naturale ed ineluttabile. Soprattutto, sfugge al nostro controllo: nessuno sa quando e come avverrà la propria morte, né tantomeno quella dei propri cari.
Questo insieme di paura, incertezza, ineluttabilità e dolore fa sì che non sia sempre facile parlare della morte, né accettarla.
La paura di morire è una delle paure ataviche, connaturate all’uomo. Per millenni sono state le religioni a fornire spiegazioni accettabili sulla morte e sulla vita dopo di essa. Ogni credo della storia, monoteista o politeista, ha cercato di rassicurare gli uomini riguardo a questa grande paura. Nelle persone che hanno Fede, questa ricerca di senso è intrisa di religiosità. Non è difficile comprendere quindi come la Fede possa giocare un ruolo importante nell’accettazione del morire.
Non tutti, però, hanno la consolazione della Fede, e la ricerca di un senso profondo al proprio esistere – o al fatto di dover un giorno smettere di esistere – va trovata in altro modo.
Felici e sani per forza
Le società meno sviluppate vivono un rapporto diretto con la morte: essa è presente come parte della vita quotidiana. Nell’Occidente ipertecnologico, invece, la morte è diventata, con il tempo, una sorta di tabù.Il mantra delle società occidentali è il benessere: stare bene, essere felici, avere successo. Morire rivelandosi esseri irrealizzati e fallibili è quasi inaccettabile per l’uomo occidentale moderno, che ha l’imperativo di essere felice.
Questo atteggiamento culturale ci impedisce di affrontare la paura di morire.
La forte pressione sociale al benessere a tutti i costi e la convinzione che la scienza medica possa “quasi” fare miracoli sono due concetti che hanno reso la morte qualcosa di imbarazzante e sconveniente. Il morire non è più nel controllo del morente, ma dei medici e dei familiari: talvolta al morente viene anche nascosta la sua condizione.
La morte ha perso la dimensione sacrale, individuale, ma anche sociale ed è diventata una vicenda medica. Al contempo, il pianto dei parenti e degli amici e l’elaborazione del lutto sono oggi questioni private, da vivere preferibilmente con dignità e riserbo.
La paura di morire, il rimosso e lo shock della pandemia
La morte sembra essere oggetto di un’operazione di rimozione collettiva. La “rimozione”, per Freud e per la psicanalisi, è un processo di eliminazione di ricordi, desideri e paure che risultano inaccettabili per l’individuo e possono creare imbarazzo.
La pandemia di Covid ha rappresentato un trauma emotivo: la morte è tornata improvvisamente protagonista e ciascuno di noi ha iniziato a temere per la propria salute fisica e la propria sopravvivenza.
Anche in questo frangente, tuttavia, abbiamo cercato il modo di non guardare davvero in faccia la morte: i defunti per Covid19 sono stati rappresentati statisticamente nei bollettini quotidiani. Queste persone sono morte in solitudine, per lo più in strutture sanitarie, invisibili agli occhi della società ancora in salute. Il dramma umano si è consumato senza il conforto degli amici e dei familiari, nella totale mancanza di un ultimo contatto fisico. Un’esperienza storica e collettiva destinata a lasciare il segno. Il “rimosso” della morte, della paura di morire, quindi sembrano diventare un atteggiamento psichico collettivo, una compagnia indesiderata, che però, cacciata dalla porta, continua a rientrare dalla finestra.
A discapito della cultura del benessere, resa forte, come abbiamo detto da 80 anni di Pace e di progressi tecnologici e scientifici, la morte non può essere considerata come un incidente che interrompe la vita, ma piuttosto come l’altro estremo che la regola e le può dare un senso.
L’esperienza del lutto richiede un’elaborazione lunga e dolorosa.
La perdita di una persona a cui si è voluto bene, con cui si è condiviso una parte dell’esistenza, scambiato affetti ed esperienze, ci obbliga ad affrontare emozioni estremamente dolorose, durature, dense di conseguenze.
La morte, spesso, ci “cambia la vita”.
Non tutti riescono a superare la perdita, ad elaborare il lutto, troppo potenti le emozioni e troppo intenso il dolore. Un dolore che è il prezzo che paghiamo per l’affetto, l’amore e l’amicizia che ci legava alla persona cara.
Questa dimensione sociale e affettiva riporta la morte in un alveo intimo, umano, in cui neppure la scienza medica riesce a scendere e a fare ordine. Si tratta di un’esperienza personale e ciascun lutto è diverso.
Da questa paura atavica, alla quale nessuno può sfuggire, nascono le paure sue figlie, come l’abbandono, la solitudine, la riprovazione sociale, il senso di impotenza, di angoscia, di smarrimento di fronte al senso della vita, legato a doppio filo al suo contrario.
Questo è l’aspetto della morte che non può essere ritoccato, marginalizzato o medicalizzato: un’esperienza pervasiva, sempre presente nelle nostre vite, un processo inevitabile, ma naturale.
Solo accettando la nostra finitudine, per quanto dolorosa, riusciremo ad elaborare il lutto, (che è anche quello di noi stessi), cambiando magari l’ordine delle nostre priorità, riuscendo a cogliere e ad apprezzare ciò che abbiamo, piuttosto che pensare a ciò che ci manca , facendo tesoro e custodendo con cura nel nostro cuore i momenti e le emozioni che hanno reso bella la nostra vita.
Spesso la perdita di una persona cara lascia un vuoto difficile da colmare, disorienta, rende difficile la quotidianità. In questi casi un sostegno psicologico può rivelarsi determinante per ritrovare un po’ di serenità o imparare a custodire un dolore che farà parte della propria vita.