//Per il malato, un approccio più umano può fare la differenza

Per il malato, un approccio più umano può fare la differenza


La malattia è una condizione che mette la persona in uno stato di sofferenza, sia fisica sia psicologica. Quanto più la patologia è invasiva, dolorosa, sintomatica e capace di privare il paziente di autonomia, tanto la sofferenza anche emotiva aumenta.

Quando le terapie non danno esito si aggiungono ansia e frustrazione ad una condizione già molto delicata. I caregiver, la famiglia, i cari del malato sono tutti coinvolti in una spirale di malessere.

In questo contesto, quanto può essere importante essere riconosciuti come individui unici, esseri umani con una propria storia e una propria dignità?

I dati, i protocolli, i rischi che corrono i medici oggi

Oggi la scienza è guidata dalle evidenze basate sui dati, da cui originano dei protocolli razionali ed efficaci nella stragrande maggioranza dei casi. Un metodo, quello scientifico, che si basa sull’osservazione dei dati, sulla formulazione di ipotesi e sulla verifica delle ipotesi. Un metodo che ci ha permesso di fare passi da gigante per debellare molte malattie, aumentare le aspettative  e la qualità della vita di miliardi di persone sul pianeta (ahinoi, quasi tutte nei Paesi ricchi del mondo), ma che non dovrebbe mai prescindere dall’aspetto più umano della cura del malato.

D’altro canto, i medici un giorno sono considerati eroi e il giorno successivo sono bistrattati,  continuamente esposti al rischio di querele da parte dei pazienti e non ricevono un compenso commisurato al carico di lavoro e di responsabilità. Per questo corrono il rischio di agire in autotutela, limitandosi ad applicare in maniera molto rigida i protocolli previsti o chiedendo ulteriori accertamenti e test diagnostici, lasciando sempre meno spazio all’osservazione clinica e individuale del paziente. Non è raro che il malato si ritrovi, così, in un iter molto lungo, con visite e esami ripetuti, molto stressante sia sul piano fisico sia su quello psicologico.

Esiste il rischio di appiattire e standardizzare eccessivamente, da un lato una professione che richiede coraggio come la professione medica, e dall’altro uno stato di malattia che richiede il riconoscimento dell’individuo in quanto persona, come la condizione del malato? Per quest’ultimo, un approccio che tenga in maggiore considerazione l’aspetto più emotivo della Salute potrebbe fare la differenza.

Che cos’è la salute

La definizione di Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità spiega che la salute non è semplicemente l’assenza di patologie, ma è uno stato di completo benessere psicofisico. Quindi la salute del corpo non è una condizione sufficiente per stare bene. Curare solamente l’aspetto fisiologico della patologia rischia di essere riduttivo. 

Lo abbiamo sperimentato drammaticamente negli anni della pandemia, quando i  ricoverati, anche anziani e con prognosi estremamente severe, hanno dovuto affrontare questo dramma in isolamento, senza il conforto dei familiari, in una situazione prossima alla disperazione.

Che cos’è una Persona?

Anche fuori dall’emergenza pandemia, per il malato è importante sentirsi considerato come una Persona e non come un corpo con una patologia. 

Sul significato della parola Persona, la filosofia si spende da migliaia di anni. Etimologicamente, richiama la maschera teatrale, il “personaggio”. Poi il significato si è esteso in mille modi: oggi usiamo questa parola anche per definire l’individuo, l’essere umano a cui vengono attribuiti  un valore ed una dignità altissimi, proprio in quanto tale. 

In buona sostanza, il termine “persona” descrive un individuo all’interno di un contesto sociale, dotato di un corpo, di una psiche, di una morale, di pensieri, convinzioni e che attua comportamenti che hanno un impatto anche sulla vita degli altri. 

Nessuno di noi si sognerebbe di definire “persona” il solo corpo, né si considererebbe meno “persona” se subisse una mutilazione o una perdita di funzionalità.

Per questo, anche la medicina dovrebbe mettere sempre al centro la Salute della Persona nella sua interezza.

A onor del vero, sono sempre di più i centri di cura, medici, ospedalieri che, al loro interno, prevedono la figura dello psicologo per offrire sostegno, supporto e percorsi dedicati. Lo vediamo in strutture dedicate alla cura di tumori, di patologie invalidanti, di grave obesità ecc.

La condizione ideale sarebbe estendere questo approccio ad ogni aspetto della sanità pubblica, anche con l’istituzione dello psicologo di base, che affianca il lavoro del medico. D’altro canto, sarebbe ideale anche prendere il buono dai progressi scientifici di oggi e recuperare quell’aspetto umano e caratteristico del rapporto medico – paziente, o sanitario – paziente.

La salute fisica e la salute psicologica oggi

Chiunque abbia sperimentato di avere un familiare malato, sa che non solo la cortesia del personale medico e sanitario, ma anche l’attenzione all’individuo cambiano l’esperienza della malattia. Anche quando – purtroppo – la patologia non può essere sconfitta.

La pandemia ha messo in luce le grandi capacità tecniche e scientifiche che abbiamo raggiunto, ma anche i rischi a cui è esposta una società che reputa salute solamente quella fisica. Oggi, ad esempio, abbiamo sotto gli occhi generazioni di giovani fisicamente sani, privi di patologie, ma che chiedono a gran voce sostegno per la propria salute mentale. Segno di una società che può diventare longeva, vivere molti decenni più delle precedenti, senza essere mai davvero in Salute, se la intendiamo come da definizione dell’OMS.

Un terreno che scricchiola, dove i progressi tecnologici sembrerebbero portarci ad un approccio data – driven verso la cura del malato, con il rischio di dimenticare la pietas, l’empatia e il rispetto di tutte le caratteristiche fisiche e psicologiche dell’individuo, che invece ha bisogno di essere riconosciuto nella sua dignità di persona, anche e soprattutto nella condizione di fragilità che sperimentiamo durante la malattia.