Vendetta e psicologia: quando ci fa davvero bene?
La vendetta in psicologia rappresenta un atto di rivalsa verso un torto subito, che può rivelarsi soddisfacente, ma a delle particolari condizioni.
Sebbene sia considerato un comportamento esecrabile, vendicarsi è una scelta estremamente comune.
Non serve pensare a grandi crimini o torti che possano mettere in pericolo l’incolumità delle persone. Gli esseri umani, infatti, tendono quotidianamente a vendicarsi di piccoli screzi in ambito familiare, amoroso, lavorativo, amicale, mettendo in atto delle ripicche per pareggiare i conti: non farsi sentire, rispondere a monosillabi, mostrarsi glaciali, fare piccoli dispetti ad un ex partner. Chi non lo ha fatto mai?
La vendetta in psicologia ha una spiegazione “evolutiva”
Secondo alcuni studi, la vendetta in psicologia potrebbe essere spiegata come una questione legata all’evoluzione della società umana.
Da un lato, sembrerebbe che le persone tendano a vendicarsi quando percepiscono una mancanza di rispetto. In genere si ha questa percezione quando chi ci fa un torto assume dei benefici che non gli spettano, privandocene (o privandone le persone a noi care).
Possono essere benefici tangibili (soldi, cibo, oggetti) oppure morali (attenzioni, fama, riconoscimenti ecc).
Da un punto di vista sociale quindi la vendetta potrebbe essere spiegata come un comportamento che garantisce la convivenza degli individui in un gruppo sociale: una sorta di meccanismo di difesa per evitare che un singolo più forte (o prepotente) si appropri delle risorse che servono al benessere di tutti.
Un sistema di riparazione, questo, che è stato il perno di uno dei primi testi giuridici della storia: il codice di Hammurabi con il suo famoso “occhio per occhio”.
Sotto una spinta evolutiva sociale così forte, il meccanismo di soddisfazione innescato dal vendicarsi di un torto si è radicato profondamente nella psiche umana. La nostra cultura, oggi, deplora la vendetta sia per influsso del cristianesimo (da “occhio per occhio” a “porgi l’altra guancia”), sia perché troppo spesso mostra il suo lato nefasto: un’escalation di ripicche al rialzo, con esiti talvolta tragici a seconda dei contesti.
Quando la vendetta non funziona
Alcune indagini psicologiche hanno mostrato chiaramente che quando siamo noi a vendicarci di un torto, percepiamo la nostra vendetta come un gesto commisurato al danno subito. Al contrario, quando subiamo una vendetta, essa tende a sembrarci sproporzionata e crudele.
Questo disequilibrio nella percezione innesca il circolo vizioso delle ripicche continue. Restando in una casistica “quotidiana”, per esempio, divorzi e separazioni diventano guerre che tirano in ballo patrimoni e figli; banali discordie tra vicini di casa diventano convivenze impossibili, che portano le persone al limite; dissapori con i colleghi trasformano il lavoro in uno stillicidio e così via.
La causa principale delle escalation di vendetta è questa, ed ha esiti del tutto disfunzionali e nefasti.
Quando funziona
Gli studi e l’esperienza dimostrano che la vendetta funziona se e solo se l’altra persona mostra pentimento rispetto al suo errore. La vendetta in psicologia quindi fungerebbe come meccanismo riparativo, per riportare gli individui che sono legati da una relazione sociale su un piano di parità.
Se un amico ci fa un torto e noi decliniamo il suo invito alla festa di compleanno, saremo soddisfatti solo se il feedback sarà positivo: l’amico riconosce di aver sbagliato, chiede scusa, la vendetta è soddisfatta e la relazione è ripagata.
Al contrario, se risponde con l’indifferenza o con un’altra vendetta, si innesca un circolo vizioso e disfunzionale che non porta soddisfazione a nessuno. Anzi, mette a rischio il sentimento di amicizia e la relazione tra le persone.
Nella casistica “quotidiana” delle relazioni familiari, amorose, amicali e lavorative c’è un grande limite: spesso le persone non si rendono conto di commettere dei torti. Se non comunichiamo il nostro punto di vista e il nostro disagio, vendicarci diventa del tutto inutile. ma c’è un’altra strategia psicologica che sembra essere più funzionale.
Vendetta vs perdono
Se la vendetta gode di cattiva reputazione, il perdono è considerato un gesto per asceti. Nonostante sia così radicato nella nostra cultura post cristiana, è ancora molto facile considerare il perdono un atto di debolezza: se perdono, l’altro penserà di potersi ancora approfittare di me.
Non è questa l’essenza del perdono funzionale, in psicologia. Perdonare è un atto di liberazione che facciamo prima di tutto verso noi stessi, per evitare di essere avviluppati da sentimenti distruttivi come il rancore e la sete di vendetta.
Al perdono può – e deve – corrispondere una presa di responsabilità da parte di chi ha commesso il torto. In questo modo, perdonare diventa una scelta molto più efficace e liberatoria rispetto alla vendetta.
Per fare questo, è necessario però far sapere a chi ci ha fatto un torto che ci sentiamo feriti. Lasciare da parte l’orgoglio e comunicare in maniera assertiva i propri sentimenti e i propri bisogni affettivi e sociali, può fare un’enorme differenza. Una volta che l’altro conosce gli effetti delle sue azioni, possiamo decidere con cuore libero di perdonare ed evitare l’escalation di ripicche tipica della vendetta insoddisfatta.
Parte del lavoro della psicologia è insegnare a mettere in atto schemi di comunicazione assertiva, che possono rivelarsi incredibilmente utili quando ci sentiamo feriti o amareggiati dai comportamenti delle persone che abbiamo intorno.
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